Queer di Guadagnino con Daniel Craig è eros ed enigma (2024)

C'è la cotta adolescenziale così vivacemente resa in Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, e poi c'è la rovinosa ossessione sessuale e romantica rappresentata nel suo nuovo film, Queer, presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia. Adattamento del romanzo di William S. Burroughs, Queer è uno sguardo strano e scoraggiato su un uomo che si consuma a causa del desiderio. Parla anche di altre cose: le sottili ed evidenti predazioni della vita da espatriato, la ricerca di un'esperienza trascendente, anche se tutto sembra ricondursi alla fissazione di un uomo per un altro uomo, una fame folle e soddisfatta solo in parte.

Daniel Craig interpreta Lee, un flâneur burroughsiano perennemtne ubriaco che vive a Città del Messico nei primi anni Cinquanta. Trascorre il suo tempo facendo baldoria in alcuni bar, intrattenendo conversazioni sarcastiche con compagni di bevute americani o andando in cerca di sesso. È disgustato dalle proprie inclinazioni, anche se non le limita. Lee è anche, si apprende in seguito, in preda a una dipendenza da eroina, che tratta con rassegnata noncuranza. Craig, capace di estrema scioltezza quando interpreta James Bond o Benoit Blanc, si lascia andare al sudore, al disordine, a un disastro che lo fa barcollare in un abito di lino sporco.

Lee è in netto contrasto con un nuovo arrivato sulla scena, Gene (il notevole Drew Starkey), giovane, bello e ordinato. Quest'ultimo cattura immediatamente gli sguardi degli uomini che orbitano in questo piccolo quartiere, ma soprattutto quello di Lee. Come potrebbe non essere attratto da una creatura come questa? Una visione crema e bronzea, con una sorniona consapevolezza che sembra danzare leggera sul suo bel viso. La sua sicurezza è dolorosamente intrigante, così come il modo in cui passa cambia rapidamente umore quando è in presenza di Lee.

La loro dinamica è riproposta con precisione nel film, familiare a chiunque abbia cercato in modo contraddittorio sia l'affetto sia il rifiuto di una persona mercuriale che alterna capricci e attenzioni. Lee e Gene si frequentano, in diverse occasioni, ma Lee lo inquadra sempre come un favore che Gene fa a lui, o come parte di uno scambio reciprocamente vantaggioso in cui la vera cura non ha posto. Eppure Lee continua a cercare Gene in ogni modo; è parte della distruzione che vede come inevitabile per la sua condizione.

Tutto questo potrebbe far sembrare Queer come un dramma cupo e punitivo. Ma non è questo il genere di film che Guadagnino realizza. Queer è invece anticonformista, astratto, irregolare nell'umore e nel ritmo, come si addice a un adattamento dell'opera di Burroughs. Può essere un film cattivo e sconcertante, anche se una parte della nostra repulsione nasce dall'orrore dell'auto-riconoscimento. Per ravvivare l'atmosfera, Guadagnino propone alcune scene di sesso che, se spogliate del contesto, forse si qualificano come sexy. Utilizza canzoni anacronistiche – ci sono due cover dei Nirvana, per esempio – come colonna sonora delle scene, accanto alle composizioni originali pulsanti e meccaniche di Trent Reznor e Atticus Ross. Il film è un tripudio di stile e tecnica, sempre più surreale mentre Lee insegue Gene e una conferma che non arriverà mai.

Lee porta Gene in missione in Sudamerica, dove intende cercare una pianta che, a suo dire, i locali ritengono possa aiutare la telepatia umana. Si chiama yage, oggi più comunemente nota come ayahuasca, e Lee spera che possa aprire uno spazio verso la comprensione del mondo, di sé stesso, di Gene. Da un certo punto di vista, Queer potrebbe essere valutato come un film su un uomo che viaggia nelle profondità della giungla per scoprire se un ragazzo che gli piace è davvero gay o no.

Naturalmente il film è molto di più, in modo chiaro e imperscrutabile. Guadagnino è forse più concentrato a riprodurre l'umore e la cadenza di Burroughs, l'enigma del cinismo e del pensiero magico che coesistono. Io credo ci sia riuscito, anche se il giudizio finale spetta di diritto agli spettatori che hanno più familiarità con Burroughs. I fan della letteratura gay dell'era Beat, con la sua grinta, il suo sogno e il suo disprezzo per sé stessi, otterranno grande soddisfazione dal film. Chi non ama questi toni particolari avrà più difficoltà. Queer è il Guadagnino più opaco e alienante; persino Suspiria è più invitante.

Eppure, ci sono sequenze e giochi accattivanti, erotici o dolorosi, o entrambe le cose. Il modo in cui la musica e il momento si scontrano e si completano è ammaliante. Guadagnino utilizza il lotto degli studi di Cinecittà a Roma per creare una Città del Messico fantasiosamente in diorama, tutta alberghi elegantemente trasandati e bar notturni luminosi. A mano a mano che il film diventa sempre più strano, Guadagnino lo svincola dal tempo e dallo spazio. La scena culminante dell'ayahuasca è una sorta di danza moderna, con due uomini illuminati dal fuoco che si fondono e si separano.

Al centro del film c'è qualcosa di incommensurabilmente triste e con cui è possibile una cupa immedesimazione, a cui avrei voluto che Gaudagnino desse più luce. Ma questo forse avrebbe tradito le intenzioni di Burroughs e, suppongo, anche quelle di Guadagnino. Queer è concepito per essere pungente, schivo, enigmatico. Pretendere qualcosa di più potrebbe voler dire cadere nello stesso errore di Lee, cercando di afferrare qualcosa che non potrà mai essere nostro.

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